Quando un cantante è particolarmente dotato, il che non significa che sappia semplicemente cantare bene, ma che abbia anche una forte personalità, una buona presenza scenica, l’accompagnamento di buoni musicisti e un repertorio di testi musicalmente e letterariamente significativi, può essere destinato a divenire mito, più o meno grande.

Il suo “servizio”, quello di cantare per gli altri e fare cantare gli altri, lo porta necessariamente ad uscire dalla sfera della vita personale per diventare simbolo, archetipo, interprete e portavoce di pensieri, emozioni e sentimenti della collettività.

Da un punto di vista sociale, funzionale e simbolico diventa come l’aedo, il cantore sacro, iconograficamente cieco, non distratto dalle faccende mondane, in intimo contatto con le profondità di sé e in connessione diretta con la divinità, che parla con lui attraverso le Muse. Cultore di un’arte in cui poesia e storia si intrecciano indissolubilmente, detentore di un sapere che sgorga dalle profondità dell’anima e lì può arrivare, custode della memoria collettiva, dei valori e dei disvalori, degli usi e costumi, in una parola dell’identità di una cultura.

Così aveva codificato la Grecia antica il mestiere di colui che, in eventi pubblici e privati, narra i poemi dell’epica, accompagnato dal suono della lira, nella consapevolezza della sua importanza, del suo pregio e, aggiungo, della sua funzione terapeutica.

Tristemente il riconoscimento di un cantante avviene oggi solo attraverso i mezzi televisivi, per non parlare del fatto che dagli anni ’80 del secolo scorso, complici le tecnologie in grado di campionare qualunque suono, il mercato musicale si è concentrato sempre di più sulla costruzione a tavolino di personaggi fittizi, inevitabilmente senza spessore e destinati a tramontare nel giro di una stagione.

Eppure i cantanti/cantautori, quando riescono a bucare la cortina delle suddette difficoltà e ad emergere, nell’autenticità del loro essere e del loro stile, riescono ancora oggi ad occupare il loro ruolo di “aedi” e a lasciare il segno, quando più quando meno. Nei casi più eclatanti migliaia di persone, giovani, ma anche meno giovani, sono disposte non solo a pagare un biglietto, ma a fare molti chilometri e spesso ad affrontare attese e code estenuanti per due ore di concerto, per sentirlo cantare e cantare con lui.

Per il solo puro divertimento? Per molto di più direi: perché fa bene e lo si esperisce profondamente. Cantare e sentire cantare fa bene alla salute fisica e psichica, come dimostrano le tante ricerche scientifiche internazionali esistenti e illustrate nei capitoli addietro e come riportano le innumerevoli testimonianze dirette.

Vi sono cantanti di grande levatura, come l’appena scomparso Franco Battiato o Fabrizio De Andrè, che, attraverso la loro opera, hanno aiutato molte persone ad attraversare periodi difficili della loro vita.

Tratto dalla mia tesi di laurea in Psicologia Clinica – La canzone che ho in testa: i benefici effetti psicofisici del canto – © Federica Vignoli 2021 – Grazie per citare la fonte in caso di utilizzo